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RELAZIONE SUL TERREMOTO, di Don Giorgio
4 settembre 2012, Centro famiglia di Nazaret.
Relazione in occasione della due giorni Diocesana
E’ indubbio che l’evento terremoto ha indotto dei cambiamenti nella nostra vita. Sul piano del nostro linguaggio quotidiano, ad esempio, ci sono alcune parole che prima non conoscevamo, o comunque non facevano parte del nostro parlare di tutti i giorni, e che sono diventate di patrimonio comune: agibilità o non agibilità, messa in sicurezza, transennare, puntellare, zona rossa, protezione civile, tendopoli, vigili del fuoco, e poi, ancora ricostruire, riparare, ecc…tutte espressioni che rimandano al travaglio reale che hanno vissuto e ancora vivono in parte le nostre comunità.
Nell’incontrarsi fra le persone, al generico “come va?” si è sostituita la domanda sulla casa: “com’è la tua casa?”, “dormi in casa oppure sei in tenda, roulotte, camper…?”
Ricordo abbastanza bene l’intervento di Don Andrea La Regina, di Caritas Italiana, nel primo incontro di coordinamento dopo la scossa del 20 maggio, a Finale Emilia, che invitava a rendersi conto che mentre era sotto gli occhi di tutti la rovina dei monumenti e il crollo delle chiese, occorreva stare in guardia dalla disgregazione della comunità (cristiana), che avrebbe potuto verificarsi, come puntualmente, almeno in parte , mi sembra sia effettivamente accaduto. Venendo meno i consueti luoghi di incontro, scuola, lavoro, attività ricreative e sociali, i legami e le relazioni fra le persone ne hanno fatalmente risentito, spero non in modo irreversibile. Alcune persone, non poche, che prima facevano parte della nostra vita quotidiana, sono improvvisamente scomparse, come in un anticipato esodo dovuto alle vacanze: chi poteva ha lasciato il paese, almeno per un po’, altri hanno cercato di collocare in luoghi più tranquilli, al mare o in montagna o dove si poteva, piccoli, ragazzi e anziani.
- 1. Quale significato attribuire all’evento terremoto?
Nella comunità cristiana si sono fatte strada riflessioni orientate a mettere in evidenza la fragilità e precarietà della condizione umana, provocando:
- in senso positivo, uno stimolo ad una lettura più vera dei valori della vita: che cosa conta di più, per che cosa dobbiamo spenderci, impegnarci, soffrire… se ciò che è frutto delle nostre mani da un momento all’altro può non esserci più? Che cosa nella nostra condizione umana, rimane, sopravvive anche al terremoto ( o a qualsiasi altra disgrazia…)? In definitiva, c’è qualcosa su cui fondare una speranza che non viene meno?
- in senso negativo, sentimenti di paura, angoscia, insicurezza profonda, tristezza…
Credo, per grazia di Dio, di aver vissuto i momenti terribili delle scosse di terremoto in modo tale da non uscirne colpito in termini di shock o paura invincibile, come invece purtroppo è capitato a tante persone che, dopo il terremoto, faticano a dormire, oppure si svegliano improvvisamente, oppure non sopportano di stazionare in una struttura di muratura, oppure hanno perso serenità….Questo è indubbiamente un punto a favore, a partire dal quale, da subito, ho avuto la percezione che ognuno di noi, come singoli e come comunità, potevamo provare a tirar fuori le nostre migliori energie. Se avevamo ancora un po’ di energia, un po’ di forza, un po’ di risorse umane e spirituali, era per soccorrere gli altri, quelli più deboli o in difficoltà. In me si è consolidata una convinzione: la storia è fatta non semplicemente di fatti belli o fatti brutti (il terremoto, come un incidente, una malattia…sono sicuramente fatti brutti), ma da come noi ci poniamo di fronte alle cose che accadono. Si può vivere nella tranquillità più assoluta e rimanere inerti, chiusi in se stessi, come si può sperimentare la difficoltà di momenti complicati e proprio lì provare a dare il meglio di sé. Mi sembra che molti, nei nostri paesi, credenti o no, abbiano cercato di fare così, di dare il meglio di sé.
Purtroppo c’è anche la tentazione dell’egoismo: anche questo può essere amplificato dal disagio. L’egoismo che poco o tanto abbiamo tutti, alimentato dalla paura, ha portato anche a tentare di approfittarsi della situazione: accaparramento dei beni, richieste esagerate per affitti, ecc.
Se ci stiamo interrogando sulla qualità della nostra fede, non credo che il terremoto abbia causato un crollo o, al contrario, un aumento di fede: dimensioni, per la verità, anche difficili da misurare. Ho registrato all’interno delle nostre comunità più di una volta espressioni come “ringraziamo Dio, perché poteva andare molto peggio…..infatti abbiamo ancora la vita, siamo usciti illesi”. La preghiera di ringraziamento mi sembra che spesso sia uscita spontaneamente, segno forse di un apprezzamento per il valore della vita, che conta di più dei beni che abbiamo perso. Di fatto la presenza alle celebrazioni, prendiamo in considerazione quelle festive, è diminuita, complice probabilmente il periodo estivo e naturalmente tutto il trambusto seguito al terremoto (spostamenti di persone altrove, cambiamento degli orari delle celebrazioni, cambiamento dei luoghi delle celebrazioni e impossibilità di comunicare bene queste variazioni)
2. Quali cambiamenti e quali scelte pastorali induce questo tempo di prova?
E’ ovviamente una domanda che ci siamo posti fin da subito: che cosa dovremo cambiare (o cambierà, indipendentemente dalla nostra volontà…) dopo il terremoto nel vivere l’esperienza della fede e della chiesa?
Di fatto, nell’immediato post terremoto, siamo stati fagocitati dalle preoccupazioni dovute
- alle strutture (crollate, quindi la gestione dei ruderi, oppure da realizzare il più rapidamente possibile per far fronte all’inverno: centri di comunità e chiese provvisorie)
- alla condizione delle persone più colpite per la non agibilità della casa, per la eventuale perdita del lavoro, innanzi tutto (da questo punto di vista la riflessione su lavoro e festa introdotta lo scorso anno va proseguita…)
Un po’ alla volta ci siamo resi conto che occorre riprendere in mano il discorso pastorale, al di là dell’impegno sulle strutture, che pure finisce per influenzare il discorso pastorale.
- Siamo rimasti favorevolmente colpiti dall’atteggiamento di coloro che nel tempo del terremoto si sono fatti prossimi con l’offerta di aiuti, accoglienza per famiglie, animazione, offerta di amicizia, vedi il tema dei gemellaggi. Ci è stato detto da subito che l’esperienza dei gemellaggi può avere una valenza pastorale importante, al di là dell’aiuto concreto e immediato. Questo può avere un risvolto positivo perché può aiutarci ad aprirci ad altre realtà, uscire dal guscio di una sorta di pretesa autosufficienza, capire che l’apertura ad altri è sempre arricchente.
- Un punto importante è l’accoglienza: abbiamo ricevuto offerte di accoglienza da tante parti: come potremo ignorarlo per il futuro? Quando qualcuno si rivolgerà a noi (comunità parrocchiale, o singole famiglie) chiedendo ospitalità come ci comporteremo? Credo che dovremo tenere conto nella progettazione della parrocchia del post terremoto di questa dimensione, predisponendo qualche ambiente per l’ospitalità e l’accoglienza, e confermando e, per quanto possibile consolidando, la tradizione in questo settore già operante, vedi ad esempio l’attività dell’associazione IL PORTO e delle Caritas delle parrocchie. Non sappiamo ancora bene quale sia la situazione abitativa delle famiglie terremotate, e non so ancora bene quale strada prenderà il Comune, quali soluzioni si prospettino, ma è utopistico pensare che la comunità cristiana promuova al suo interno una sorta di gemellaggio famigliare, nella quale le famiglie che possono adottano qualche situazione di precarietà di altre famiglie? Questa azione, forse, potrebbe agire profondamente in modo positivo nella comunità, dando vita a nuovi legami di fraternità.
- Si è rivelato importante il coordinamento promosso dalla Caritas Diocesana per lo scambio di informazioni e di esperienze che man mano venivano avanti, confermando in questo modo ciò di cui siamo probabilmente già convinti: più si opera insieme, meglio è. E’ importante dunque che nel percorso del post terremoto nessuna comunità sia lasciata sola, anzi ci sia una spinta per una azione comune, nei settori dove ciò si ritiene utile. Soprattutto fra noi, nel nostro vicariato, senza nulla togliere all’importanza dei contatti con chiunque altro voglia farsi prossimo, si può immaginare una maggior capacità di relazione fra noi sacerdoti, un trovarci più spesso, e una maggior convinzione nel fare percorsi comuni fra gruppi per condividere le incertezze, ma anche le risorse del tempo che viviamo.
- Cosa cambierà nell’azione pastorale dopo il terremoto? La mancanza di ambienti per trovarsi, per fare i gruppi del catechismo, dei ragazzi, scout Acr o altro che siano rappresenta una sfida. Riusciremo a convocarci ugualmente? I primi temporali dopo un interminabile periodo di siccità ci fanno già toccare con mano in questi giorni che stare sotto una tenda è un problema. Nel frattempo, almeno per quanto riguarda i bambini e i ragazzi fino alle scuole medie, ma forse anche oltre, si presenta una situazione nuova. Manca la scuola, ancora: sembra che riapriranno a metà ottobre. Manca così un punto di riferimento per il vedersi quotidiano, la comunicazione come prima avveniva risulta compromessa. Rimane la via della relazione come modalità di valore da vivere fino in fondo, se vogliamo andare avanti. Se vogliamo convocare una riunione di bambini o di ragazzi, in questo periodo, dobbiamo andare a cercarli, dobbiamo chiamarli, magari uno a uno. A pensarci bene, è proprio la relazione fra le persone che costituisce la chiesa, quella che dobbiamo impegnarci a consolidare o ricostruire. Siamo dunque ‘costretti’ a puntare sulle relazioni più che sulle strutture, e forse è un bene che sia così e che ce ne rendiamo conto. Tutte le volte che ci siamo dimenticati di questo, abbiamo rischiato di investire energie inutilmente.
Don Giorgio Palmieri
Parroco di san Felice s.P. (Mo)